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 "La poesia in quanto tale è elemento

costitutivo della natura umana"

 

InCanto Dantesco

Dante e la libertà: dalla politica alla morale (e ritorno)

  

Libertà è parola eminentemente significativa nella concezione della vita dell’uomo medievale e del suo rapporto con gli altri e con Dio. Il nostro Dante lo sa bene, e ne fa lo scopo di tutto il suo viaggio ultraterreno, un percorso di progressiva conoscenza delle componenti molteplici da cui nasce e di cui si sostanzia il peccato nell’uomo e delle sue manifestazioni fenomenologiche, e al contempo un viaggio di scadenzata purificazione e liberazione dal fardello delle umane debolezze, simboleggiato anche da quelle sette P che il pellegrino pian piano cancella dal suo volto nella scalata al monte del Purgatorio.

Innanzitutto, dobbiamo tener presente che il vocabolo “libertà”, diretto discendente del latino libertas, ha una etimologia incerta, forse da riconnettere al greco eleutheros (“libero”), o al greco laos (“popolo”), meno probabilmente da legare al verbo libere (lubere), che significa “aver piacere, brindare” (si pensi a libidine o libare). Se l’origine del termine non è univocamente individuabile nella lingua latina, è chiaro però che la libertà era un concetto fondante nella dicotomica società antica, basata sulla distinzione tra servi e liberi: non a caso liberi erano definiti i figli, con riferimenti alla prole del dominus, e liberales erano chiamati gli uomini che potevano permettersi di agire liberaliter, con una “de-liberazione” incondizionata, come lo è ad esempio un rapporto di amicizia. È interessante rimarcare che questo rapporto tra libertà e amicizia sopravvive nell’affinità fonetico-linguistica riscontrabile ancora oggi nelle lingue germaniche, basti pensare all’inglese freedom/friend o al tedesco Freiheit/Freund.

La storia del termine, dal Medioevo ad oggi, ci illumina sull’evoluzione del concetto di libertà: da un semplice stato giuridico designante, nell’antica Roma, la non appartenenza alla condizione servile, la libertà ha assunto l’accezione di libero arbitrio e autodeterminazione, fino ad arrivare al concetto moderno di “possibilità di esprimersi senza condizionamenti”.

In questo viaggio semantico, la libertà per Dante non è esattamente quello che intendiamo noi oggi.
Il termine non compare nell’Inferno, regno del tormento eterno in cui non è possibile alle anime peccatrici sperare di liberarsi dalla dannazione cui sono sottoposte.
Significativamente la parola compare nel Canto I della seconda cantica, quando Dante e la sua guida incontrano il guardiano del Purgatorio e simbolo stesso della libertà, Catone l’Uticense, il famoso politico del I sec. a. C., nemico di Giulio Cesare, che si uccise a Utica per non tradire i suoi ideali repubblicani e cadere nelle mani del futuro dittatore;
Virgilio gli rivolge umili parole che suonano come una sottile captatio benevolentiae, ricordandogli che anche Dante sta compiendo il suo viaggio per raggiungere la liberazione dal peccato (Purgatorio I, 70-72):

Or ti piaccia gradir la sua venuta:

libertà va cercando, ch'è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta.

 

Questa libertà inseguita da Catone, per la quale il santo “veglio” decide di togliersi la vita, è la libertà repubblicana, che l’arrivo di Cesare avrebbe definitivamente stroncato.
È curioso che Dante scelga un suicida come guardia del Purgatorio, e per di più un fiero oppositore di Cesare, di colui, cioè, che avrebbe instaurato il principato a Roma, inaugurando quella forma di governo, l’Impero, che Augusto avrebbe eretto a sistema e che, secondo Dante, sarebbe stata voluta da un disegno divino: non a caso Dio scelse di farsi uomo e venire sulla terra con il nome di Gesù proprio durante il regno del primo imperatore, il divo Ottaviano. Ma la scelta di Dante è dovuta al valore simbolico che assume il gesto di Catone.
Egli non ha infatti deciso di togliersi la vita per una debolezza personale, per lo sconforto o la rinuncia ad affrontare i pericoli e le cattiverie umane, come nel dolente e disperato gesto di Pier delle Vigne nel canto XIII dell’Inferno (che per l’invidia dei malparlieri si risolse a darsi la morte), ma lo ha fatto per la sua coscienza e la sua coerenza, che gli imponevano di non voler rinunciare alla libertà di scegliere, di autodeterminarsi, di inseguire la strada della sapientia.
Il suo suicidio è legato ad un avvenimento politico, senza il quale avrebbe certamente perso la sua dirompente carica simbolica, ma non si tratta di un gesto rivoluzionario di protesta politica, quanto piuttosto di un modo più nobile di ribadire il valore assoluto della libertà e accendere nel mondo l’amore per essa (“ut mundo libertatis amores accenderet, quanti libertas esset ostendit” (De Monarchia II, 5, 15).

Pertanto, la libertà che Dante celebra sotto le spoglie di Catone non è la semplice libertà politica, quella concepita nella lezione illuminista e attuata nella Rivoluzione Francese, quella delle dottrine giuridiche del Settecento (che addirittura la declinano al plurale per rimarcare tutti i campi in cui all’individuo è garantito il libero esercizio senza imposizioni o divieti: libertà di pensiero,  di associazione, di religione, di commercio, di espressione), quella che ci fa essere orgogliosi delle nostre rivoluzioni risorgimentali o quella impersonata dalla giovane donna a petto nudo che guida il popolo con la bandiera della Francia in mano nel celebre quadro di Delacroix; la libertà di Dante, e che Catone rappresenta, è intesa primariamente in senso morale e spirituale.
Come la giovane Antigone nella versione del drammaturgo francese Jean Anouilh dice “no” all’assoggettamento al mondo orribile, corrotto e perverso di Creonte, e decide di andare incontro alla morte con un cipiglio e una determinazione quasi più irritante della sua omonima eroina sofoclea, così Catone dice no al compromesso con il nascente Impero.
Ma il suo gesto assurge a simbolo di libertà come valore metastorico e metapolitico, e richiama il vero senso del viaggio ultraterreno di Dante, che altro non è se non una aspirazione alla libertà, che è ricerca di purificazione sotto la luce della Grazia.

Il senso di questo cammino, tortuosa e sofferta progressione verso la riscoperta del vero Bene, trova la sua sublimazione quando Dante, quasi alla fine della sua avventura ultraterrena, confessa a Beatrice (Paradiso XXXI, 85-87):

Tu m’hai di servo tratto a libertate

per tutte quelle vie, per tutt’i modi

che di ciò fare avei la potestate.

    

Varie sono le sfumature semantiche che la “libertà” assume nella Commedia e nel pensiero dantesco, e qui sarebbe troppo lungo analizzarle tutte. Ma se per noi moderni la libertà è un diritto inalienabile dell’uomo, sancito dalle Dichiarazioni dei Diritti e ribadito negli incipit delle moderne Costituzioni, un concetto giuridico consustanziato all’individuo e che ne sancisce la capacità di autodeterminazione, elemento prodromico ad ogni atto dell’uomo inserito in un contesto sociale e civile, per Dante la libertà è principalmente un concetto morale, “scaglion primaio” di tutte le libertà giuridiche. Ciò risulta evidente nella discussione che il poeta intrattiene con Marco Lombardo nel canto XVI del Purgatorio sul rapporto tra la libertà individuale e l’obbedienza alle leggi divine e alle influenze angeliche (vv. 67-81):

Voi che vivete ogne cagion recate

pur suso al cielo, pur come se tutto

 movesse seco di necessitate. (69)

 

Se così fosse, in voi fora distrutto

libero arbitrio, e non fora giustizia

per ben letizia, e per male aver lutto. (72)

Lo cielo i vostri movimenti inizia;

non dico tutti, ma, posto ch’i’ ‘l dica,

lume v’è dato a bene e a malizia, (75)

 

e libero voler; che, se fatica

ne le prime battaglie col ciel dura,

poi vince tutto, se ben si notrica. (78)

 

A maggior forza e a miglior natura

liberi soggiacete; e quella cria

la mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura. (81)

 

Si tratta di un grande interrogativo che appassionava molto il Medioevo: dove nasce il peccato se Dio regge il mondo?
Quale è il ruolo degli uomini nel grande disegno di Dio? Marco risponde a Dante che non c’è aporia tra libertà e obbedienza alle leggi divine;        
gli influssi astrali ci sono e sono voluti dal Creatore, ma in ultima istanza è l’uomo a dover scegliere come operare nel mondo; la sua libertà di scelta è salvaguardata, e il merito per il bene o la punizione per il male dipendono solamente dalle scelte individuali di ciascuno di noi.
Questa condizione dell’uomo, sospeso tra libertà e obbedienza alla volontà divina, è resa evidente dall’espressione, che a noi moderni suona come ossimorica, “liberi soggiacete” (v. 80). Per Dante, in pratica, la libertà non si configura come un valore autonomo, ma si realizza solo nella sottomissione e nell’obbedienza a Dio.
Ma c’è di più. Se con Catone, dal gesto politico l’orizzonte si allargava al senso morale della libertà, qui si ha il percorso inverso: dalla morale alla politica.
Il discorso di Marco, infatti, si amplia in seguito (vv. 82 ss.) fino a coinvolgere i due Soli, la Chiesa e l’Impero, i quali hanno il compito di reggere il mondo con la legge; e siccome la legge dell’Impero e la legge di Dio sono entrambe volute da un unico grande disegno unificatore, la libertà dell’uomo si realizza non solo nell’obbedienza ai principi divini, ma anche nell’adesione alla norma giuridica. Lo scompiglio nel mondo nasce quando il Papa o l’Imperatore tralignano e non sono all’altezza di una tale missione, come spesse volte è successo nel Medioevo e sperimentiamo sovente anche noi nel nostro mondo contemporaneo.

Per il divin poeta la libertà ha bisogno non solo di un disegno più grande dei singoli uomini per essere compiuta e realmente esperita, ma deve anche, per non rischiare di perdersi in se stessa, essere in grado di regolamentarsi: al di là delle complesse e infinite discussioni giuridiche, filosofiche, sociologiche sulla libertà, soprattutto in merito ai suoi limiti e alle sue applicazioni, Dante ci insegna non solo che la libertà, se intesa in senso assoluto, senza condizionamenti e limitazioni, è paradossalmente anarchia, ma che essa, quale dono di Dio, trova il suo dispiegamento nella dialettica tra obbedienza e indipendenza, tra umano e divino, tra Cielo e Terra.
E tocca a Beatrice ricordare a Dante la bellezza della libertà (Paradiso V, 19-24):

Lo maggior don che Dio per sua larghezza

fesse creando, e a la sua bontate

più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,

fu de la volontà la libertate;

di che le creature intelligenti,

e tutte e sole, fuoro e son dotate.

 

 

Prof. Fjodor Montemurro

(Presidente Società Dante Alighieri, Matera)

 

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