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Sul teatro.

Intervista a Donato Nubile

 

Donato, materano d’origine, vive e lavora a Milano. È attore, formatore e direttore artistico in Campo Teatrale.
Si riporta, di seguito, il contenuto dell’intervista per i Quaderni da lui rilasciata a Valentina Zattoni, in videoconferenza.

V: Donato, parliamo del “dietro le quinte” di uno spettacolo teatrale. Cosa avviene, o può avvenire, nel passaggio tra il testo scritto e la versione che verrà portata in scena?

D: Occorre, in via preliminare, distinguere due casi: un testo già esistente, rispetto al quale gli attori potranno modificare l’aspetto interpretativo, e il testo che viene delineandosi durante le prove con l’ausilio della figura del “dramaturg”, lo scrittore di scena. 

Nel primo caso, si fa precedere l’inizio delle prove da un momento di confronto sul testo tra il regista e gli attori che può prevedere diverse sessioni di lettura in cui gli attori ricevono le prime indicazioni sui personaggi, le loro relazioni, le “intenzioni” o i “sottotesti” delle diverse battute: anche nella vita reale sappiamo che spesso esiste una differenza tra quel che si dice e quel che si vuole dire: è così anche per i personaggi, e chiarire questi aspetti è un passaggio fondamentale. Il lavoro di lettura del testo può anche essere utile per rendere pian piano “naturale” un linguaggio poetico, o comunque non quotidiano.

Nel caso invece del testo che prende forma insieme agli attori, anche qui le metodologie possono essere diverse. Il lavoro può iniziare ad esempio con l’improvvisazione su temi e relazioni dati. Fermo restando quelli che sono i rapporti tra i personaggi, il regista delinea un certo contesto, e gli attori improvvisano.  Lo scrittore di scena rielaborerà testi e situazioni improvvisate dagli attori, strutturando una bozza di testo che pian piano si andrà a definire compiutamente prova dopo prova.

La mia ultima esperienza riguarda “Nel tempo che ci resta”, uno spettacolo su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che andrà in scena ad ottobre. In questo caso il regista e autore César Brie, che considero il mio Maestro, nel primo periodo di improvvisazione si è concentrato su quelle che lui chiama “immagini”, cioè su brevi quadri visivi composti dagli attori sulla scena, “fotografie in movimento” che costituiscono metafore dei temi principali dell’opera. In parallelo è stata svolta da parte di tutto il cast, un’attività di documentazione precisa e puntuale da cui il regista ha tratto informazioni e materiale per formulare una prima parte del testo, un copione che ha chiesto a noi attori di leggere ad alta voce proponendo modifiche, tagli e integrazioni. Durante le prove il testo potrà ancora cambiare fino al punto in cui la situazione si cristallizza e lo spettacolo è così strutturato.

Tutto questo è quello che si trova tra il testo e la scena, perché poi ci sono quegli aspetti che vanno avanti insieme allo spettacolo. Ad esempio, i costumi, la scenografia e il disegno luci, che devono essere scelti in modo funzionale alla scena, avere non solo una valenza estetica. Il problema di molte produzioni teatrali, oggi, è quello di non avere il tempo o la possibilità di sperimentare con questi elementi a proprio piacimento. Anche perché più tempo ha l’attore per prendere confidenza con l’elemento tecnico meglio è.

E poi ci son le prove vere e proprie, ovvero il lavoro stretto dell’attore e del regista… qui occorre arrivare con un solido background del personaggio anche rispetto a dettagli che nello spettacolo non sono visibili. In alcuni lavori occorre chiedersi cosa sia successo prima della vicenda narrata, cosa accade quando il personaggio non è in scena… eh sì! Perché l’attore non può semplicemente accendersi e spegnersi con un interruttore, ma rimanere “vivo” sempre!

Tutto quello che non è testo si trova nelle prove, quando il personaggio assume la sua identità e trova la sua naturale collocazione all’interno dello spettacolo ma sempre in un continuo interscambio con gli altri attori e la regia finchè  si va in scena.       
Ad un certo punto la fase di studio e di ricerca deve fermarsi… bisogna dare una forma precisa a quello che si fa. Ciò avviene con il montaggio, in cui l’attore in un primo momento perde la sua naturalezza dovendo fissare le sue azioni sul palcoscenico, confinarsi in una forma ben precisa, prendere sicurezza rispetto a tutti gli elementi tecnici o coreografici. Quando questa forma sarà stata “praticata” tante volte, l’attore riuscirà a nascondere la tecnica e riprenderà la sua naturalezza originaria tornando a “vivere” in scena per giungere così al debutto. In un certo senso qui le prove ricominciano; se si hanno a disposizione sei o sette date certo lo spettacolo cresce con la presenza del pubblico, ma sostanzialmente rimane lo stesso; ma con un numero di repliche maggiore la situazione si fa diversa, davvero puoi riuscire a percepire il “respiro” del pubblico, sentire i suoi umori e le sue emozioni. Ecco perché è vero che una replica non sarà mai uguale ad un'altra, e che sia da spettatore che da attore si può vivere ogni sera un’ esperienza diversa. 

Qui, ora, insieme: chi sta sul palco, è lì per il pubblico, con il pubblico!
 

V: Ma quindi deve nascere una sorta di relazione affettiva con il pubblico?

D: In un certo senso sì, sicuramente empatica, di ascolto e di relazione emotiva. Anche se l’attore non può permettersi di farsi troppo condizionare dal pubblico; ricordate? Ci sono partiture precise da rispettare. E allo stesso modo non può farsi travolgere dalle proprie emozioni, non può mai perdere il controllo. All’attore è richiesta sempre una grande consapevolezza, anche nei momenti di maggiore coinvolgimento emotivo.

L’attore deve essere autentico seppure nella finzione, essere cooperativo, mettersi sempre a servizio dello spettacolo… a ben vedere, queste sono qualità che varrebbe la pena portarsi dietro nella vita. Stare in scena, vivere attraverso i personaggi molte vite diverse… può avere un effetto catartico, prima o poi sei costretto ad affrontare i tuoi demoni, ma guai a cercare di portare in scena “esattamente” te stesso: sei lì per il pubblico, e devi rendere la storia e quello che stai vivendo universale. Se, per esempio, si porta in scena una vicenda autobiografica, o si è capaci di distaccarsene o difficilmente si sarà capaci di trasferirla in modo che quella storia diventi “di tutti”.
 

V: Prendendo spunto proprio dalle tue origini, cosa ti ha spinto a “ritornare” a Matera con la Scaletta e il progetto MetaTeatro?

D: Ho recitato in uno spettacolo a Matera, una sola volta. Fui contattato dalla cooperativa “Il Sicomoro” che voleva portare in scena uno spettacolo sui diritti dell’infanzia, mi chiesero se conoscessi qualcuno che potesse aiutarli. Mi offrii di coordinare e realizzare il progetto, e così nacque “Mai più persi”, che debuttò al Piccolo Teatro Duni riscuotendo grande successo. È stata l’unica e sola esperienza nella mia città. 

L’occasione mi si è ripresentata grazie ad una attività che definirei di “scouting” portata avanti dall’ex Sindaco Raffaello De Ruggieri: aveva, ed ha tuttora, il progetto di creare a Matera un’attività di formazione, avviamento professionale e produzione in campo teatrale, e per questo progetto ha svolto una ricerca per censire alcune esperienze analoghe. E’ così che è arrivato a me e a Campo Teatrale, e il fatto che io fossi materano ha costituito una piacevole scoperta. Mi è stato proposto di sostenere gli sforzi di alcune compagnie locali, che stavano cercando di costituirsi in un coordinamento. Ho accettato per due motivi: per tornare ad avere un collegamento con la mia città nell’ambito da me più amato, quello del teatro, e perché ritengo che ciò che ha penalizzato sinora la realtà teatrale lucana sia stato l’isolamento. E poi le potenzialità della nostra città come attrattore culturale sono immense.

Mi viene da pensare al Festival della Creatività a Sarzana o a quello della Filosofia a Carpi e Sassuolo, manifestazioni culturali in location imparagonabili a Matera ma che generano introiti di grande rilievo con ricadute positive per il territorio e gli operatori. L’idea che Matera possa diventare un luogo di produzione artistica è vincente: sono certo che avremmo solo l’imbarazzo della scelta nel selezionare artisti di rilievo anche internazionale disposti ad eleggere Matera come luogo ideale per accogliere i propri momenti di studio, di ricerca, di verifica. Certo, al momento l’assenza di uno “spazio” fisico dove ritrovarsi, dove provare, dove produrre, rappresenta un ostacolo alla libera espressione di qualsiasi iniziativa oltre alla scarsa possibilità di confrontarsi all’esterno con altre esperienze. L’anima del progetto MetaTeatro sono e rimarranno le compagnie materane. Io sono pronto a dare tutti i consigli di cui avranno bisogno, potrò essere il “ponte” tra le loro idee, le loro azioni concrete e le “reti” nazionali che si occupano di teatro. 

Ma, come ho avuto modo di dire alla compagnie che ho incontrato, l’obiettivo più grande è quello di garantire a chi verrà dopo di noi. delle condizioni diverse da quelle attuali, fare in modo che un altro “me” possa un giorno scegliere di restare a Matera per sviluppare professionalmente il proprio progetto artistico; sapendo di dovere e poter fare affidamento sulle proprie competenze, sulla propria tenacia e sul proprio talento, più che sulle proprie relazioni.

Bisogna credere in quello che si fa, anche sapendo all’inizio di non avere un sostegno pubblico, e trovare una via alternativa per concretizzare i progetti nonostante tutto, senza mai dimenticare gli spettatori, destinatari ultimi di ogni progetto artistico.  

La forza di un progetto è la sua ricaduta sul territorio, il suo impatto sociale, la forza con cui entra nel cuore e nella testa della gente: quando questi elementi diventano significativi, anche le istituzioni non possono rimanere indifferenti, ma dovranno prendere atto che quella realtà esiste e va sorretta.

Quello che mi auguro è che l’Associazione MetaTeatro esploda in una primavera di creatività e di Bellezza, che le compagnie diano forma ai propri sogni e voce alla propria motivazione, che diano vita ad un progetto comune e che sfruttino il grande consenso che hanno sul territorio per fare arrivare a Matera quello che ora non c’è. Solo con la contaminazione e la cooperazione si può preparare un futuro diverso.

V: In chiusura, Donato come vedi il teatro nel futuro a seguito della pandemia che ha radicalmente cambiato i nostri stili di vita?

D: Gli artisti saranno costretti a cercare una nuova relazione con il pubblico, anche pensando il proprio teatro fuori dai teatri. Si riducono, inevitabilmente, gli spazi di autoreferenzialità perché il pubblico andrà riconquistato.

La crisi farà sentire ancora i suoi effetti: contrazione delle risorse, dei consumi, limitata circolazione delle opere. Le esperienze teatrali più resilienti saranno quelle che riusciranno ad intercettare altri settori; ad esempio va sempre più crescendo l’importanza delle arti per il benessere della persona, così come il loro impiego per finalità di tipo sociale (contesti di marginalità, categorie fragili, ecc.). Il teatro e le arti dovrebbero incrociare anche dimensioni come la sostenibilità, la digitalizzazione, l’europeismo, il turismo sostenibile, e quello che chiamano “edutainment”, ovvero l’utilizzo delle arti a fini educativi. Questo avvicinerà maggiormente il teatro alle comunità e al tempo stesso fornirà nuove opportunità di reperimento di fondi. 

Spero che il teatro possa incontrare maggiormente la comunità, la contemporaneità, i territori e i progetti di impatto sociale. E che Matera e la Basilicata possano offrire in questo senso esempi di successo.

                                      

 

 

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