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Democrazia e futuro

L’utopia assente. Quella tensione fra “nessun luogo” e “miglior bene” che l’Occidente e l’Europa di oggi non riescono più ad alimentare 

Il 3 e 4 dicembre ospite del ciclo di incontri “Democrazia e Futuro”, il corso di formazione su politica e questioni pubbliche organizzato dal Circolo culturale “La Scaletta” per il biennio 2021/22, è stato il filosofo Massimo Cacciari.
Al centro delle sue due lezioni vi è stato un tema cruciale per il nostro futuro: la cultura europea e il suo destino. Parlare di identità e cultura europea non è facile, anche perché si tratta di mettere a fuoco un poliedro cangiante e complesso, caratterizzato dalla presenza di molteplici sfumature, spesso in apparente contraddizione fra loro, che tuttavia  sono proprio ciò che ha maggiormente contribuito a rendere il Vecchio continente qualcosa di unico, oltre che il principale protagonista dello sviluppo del mondo moderno.

Già le lezioni di sociologia tenute da Nicolò Addario, il 5 e il 6 novembre, avevano permesso di chiarire quanto l’esperienza della modernità occidentale, nella quale continua a dipanarsi la nostra esistenza nel piccolo angolo di mondo in cui ci accade di vivere, discenda proprio dall’evoluzione storica e culturale della vecchia Europa.
Dalla gloriosa rivoluzione inglese, che segnò la separazione fra politica e religione e con essa la formazione dello Stato moderno, alla rivoluzione francese, con i suoi ideali di libertà, eguaglianza e fratellanza (oggi si direbbe giustizia sociale), dalla riforma protestante, decisiva per lo sviluppo dell’individuo moderno come soggetto protagonista della storia, alla rivoluzione scientifica, che con il superamento del sistema tolemaico determina la nascita della scienza moderna come attività sperimentale, per arrivare alla rivoluzione industriale, da cui ebbe origine l’economia capitalistica di mercato.
Tutti questi momenti della storia hanno avuto per protagonista proprio l’Europa. La stessa centralità che, all’indomani della Seconda guerra mondiale, hanno saputo conquistarsi gli Stati Uniti, diventando il Paese guida del mondo occidentale, anzitutto in campo scientifico, primato al quale indubbiamente si deve anche la forza economica americana, che va in larga parte attribuita a quella straordinaria migrazione forzosa di talenti e cervelli - prevalentemente ebrei - che avevano scelto la frontiera americana per mettersi al riparo dalle persecuzioni del nazismo.

Le radici della modernità occidentale si rintracciano perciò in Europa. Quella stessa Europa che, non va dimenticato, è stata anche protagonista di sanguinose guerre e laceranti conflitti politici e religiosi.
Dunque la crescita straordinaria e tumultuosa dell’Occidente non è stato un processo pacifico, ma bensì un susseguirsi di rotture, contraddizioni, conflitti, rivoluzioni, guerre politiche e religione. Basti pensare a due importanti dinamiche storiche che nel corso dei secoli hanno avuto per protagonista il Vecchio continente: da un lato, le rivoluzioni politiche e, dall’altro, le riforme e gli scismi religiosi.
Come hanno scritto Massimo Cacciari e Paolo Prodi nel loro bel volume Occidente senza utopie, la tensione che nel Vecchio continente, nel corso del tempo, si è alimentata fra potere religioso e potere politico, ha consentito al mondo moderno la conquista di quelle libertà che ancora oggi costituiscono un tratto essenziale dell’identità culturale, storica e sociale occidentale e rappresenta l’aspetto forse più importante e decisivo per descrivere la vicenda europea. L’Europa, dalle origini di quel percorso che siamo soliti chiamare modernità, è stato questo: un confronto dialettico, perenne e in continua evoluzione, fra potere religioso e potere politico, capace di alimentare le volontà di emancipazione, conquista, conoscenza dell’uomo come soggetto protagonista del suo destino.

Da questo conflitto fondamentale hanno quindi avuto origine una serie di componenti fondamentali che hanno reso possibile lo spirito europeo, intendendo con questo termine indicare all’unisono la cultura e l’identità dell’Europa - che, successivamente, dal Vecchio continente si sono diffuse al mondo intero, producendo quella che oggi conosciamo come “modernità globale”. Alberto Martinelli - in un suo interessante articolo su L’identità europea, pubblicato dai “Quaderni di sociologia” nel 2011 - ha chiaramente identificato e illustrato tali componenti proprio come elementi costitutivi dell’identità europea.
Sullo sfondo del caleidoscopio che si definisce attraverso questi diversi tasselli, vi è l’ineliminabile tensione fra razionalismo e individualismo soggettivista, ovvero fra organizzazione sociale e libertà individuale, che si trova alla radice di quel fondamentale atteggiamento umano, vocato all’esplorazione e alla ricerca, oltre che alla individuazione di contraddizioni e linee di conflitto, che si esprime come assenza di limiti.

Già Karl Jaspers individuava nella libertà, nella storia e nella scienza i tre fattori costitutivi dell’Europa moderna. La libertà ha avuto origine e si è manifestata storicamente proprio nel Vecchio continente come vittoria sul dispotismo, nascita dello Stato moderno e sua evoluzione verso gli assetti propri della democrazia rappresentativa.
Dalla libertà alla storia il passo è breve: l’atteggiamento volitivo dell’uomo occidentale (europeo) ha infatti alimentato la ricerca del senso della vicenda storica, come necessità di comprendere il proprio tempo per svolgere un ruolo attivo nella costruzione della comunità politica e sociale.
Infine, la libertà ha avuto un ruolo decisivo anche nel generare la vocazione scientifica alla ricerca e alla conoscenza.
E lungo questo percorso, che dalla libertà alla storia e alla scienza ha condotto il mondo occidentale alla definizione del suo orizzonte di senso, ha preso forma anche la radice razionalista, intesa come capacità volitiva dell’uomo di conoscere, controllare e trasformare la natura.
Razionale è, infatti, stata dapprima la ricerca della giustificazione dell’ordine politico, come legittimato dal riconoscimento dei diritti di libertà individuale, nel passaggio dal contrattualismo hobbesiano a quello di John Locke.
Razionale è stata, al tempo stesso, la ricerca sull’ordine della natura, che da Kant in poi ha teso a indagare in modo critico le condizioni della conoscenza come esercizio della ragione pura e della ragion pratica. Razionale è stata anche la ricerca sulle forme dell’organizzazione sociale, che dalla nascita della sociologia moderna, con Weber, Durkheim e Simmel, si è interrogata su come fosse possibile la società moderna con le sue specifiche forme di integrazione.

Al razionalismo si riconnette, in maniera complementare e al tempo stesso contrapposta, l’altra caratteristica fondamentale dell’identità europea, cioè l’individualismo soggettivista.
Diverse sono le facce che tale individualismo ha assunto nel corso del tempo all’interno della vicenda europea, dal personalismo cristiano, all’autonomismo delle repubbliche medievali, dall’attore razionale che agisce sul libero mercato al libero cittadino delle moderne democrazie rappresentative. Tuttavia è soltanto con l’avvento della modernità che la natura individuale del soggetto si definisce chiaramente nella sua peculiare autonomia volitiva, come protagonista ultimo del proprio destino.
E tale definizione, nella storia culturale europea, assume di fatto due possibili configurazioni:

  • quella dell’individuo autonomo e razionale, per come deriva dalle riflessioni dapprima dei moralisti scozzesi e poi degli illuministi francesi e tedeschi;
  • quella del soggetto come espressione autentica dell’esperienza umana in tutte le sue contraddizioni, che da Freud porta fino a Nietzsche, passando dalla riflessione sull’inconscio alla critica della concezione utilitaristica e a-morale della ragione moderna.

Razionalismo e individualismo soggettivista, nelle due diverse accezioni che abbiamo menzionato, sono quindi state all’origine di quell’incessante ricerca dell’innovazione e della conoscenza, di quel rifiuto del limite alle possibilità di ricerca e affermazione umana, dell’affermazione dei principi di libertà, eguaglianza e giustizia sociale, che rappresentano - per l’appunto - gli elementi costitutivi dell’identità europea.
Questa matrice si è poi diffusa, a partire dal Novecento, dall’Europa occidentale al continente americano, e quindi nel mondo asiatico, contribuendo allo sviluppo di molteplici forme e varianti della modernità occidentale.
Ciascuna corrispondente a una declinazione della modernità europea dotata di peculiarità proprie. Ma a questo punto, giunti all’apice di questo processo di disseminazione che è stato decisivo per lo sviluppo dell’intero mondo e che oggi si ritrova nell’affermazione di un orizzonte globale, che ne é del mondo dal quale esso ha avuto origine? Molti concordano nel ritenere che l’Europa di oggi, al di là delle vicende che riguardano la sua dimensione istituzionale, rispetto a quella particolare forma di organizzazione sovranazionale che è l’Unione Europea, sia in preda a una profonda crisi di civiltà.
Una crisi per certi versi simile alla cosiddetta “crisi della ragione”, che attraversò il Vecchio continente fra la metà dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, quando la spinta propulsiva proveniente dalle élite borghesi del Vecchio continente subì un’improvvisa battuta di arresto.
A seguire, venne la Prima guerra a decretare in maniera incontrovertibile la definitiva fine di un mondo: la società borghese e i suoi valori, per come erano venuti definendosi dalla seconda metà del XVIII secolo.
Oggi, forse, ci troviamo in un passaggio d’epoca assai simile a quello, che il combinarsi degli effetti della crisi economica dovuta alla grande recessione del 2008 con la pandemia del 2020 sta contribuendo a rendere ancora più critico e difficile.

Cosa manca oggi all’Europa, per tornare a esercitare quella vocazione alla libertà, alla conoscenza e alla ricerca del cambiamento che ne ha definito in maniera così peculiare la natura culturale e identitaria del passato? Per quale motivo quell’angolo di mondo che per primo fu protagonista dell’affermazione dello Stato moderno, della rivoluzione scientifica e industriale, dell’avvento dell’economia capitalistica di mercato, appare così in difficoltà nel delineare il suo orizzonte futuro? Forse perché l’Europa non sembra più in grado di vivere le proprie contraddizioni come ragioni di trasformazione?
Per dirla nei termini usati da Cacciari, non solo nelle sue lezioni materane ma anche nel serrato dialogo con Paolo Prodi che arricchisce le pagine di Occidente senza utopie, perché l’Europa delle straordinarie tensioni ideali, dapprima nella forma delle grandi ispirazioni utopistiche e poi in quella delle profezie che riuscivano a realizzarsi in un futuro relativamente prossimo, l’Europa della smisurata e spesso incosciente fiducia visionaria nei propri destini, delle grandi visioni che hanno percorso il mondo delle idee del Vecchio continente, non c’è più. Ma questa capacità visionaria non c’è più anche perché la società di oggi è assai diversa da quella che abbiamo conosciuto nel corso degli ultimi secoli.
E lo è in un modo che rende il frangente storico in cui ci accade di vivere, questo inizio di XXI secolo, assolutamente incomparabile all’esperienza storica che ha contraddistinto gli ultimi quattro secoli, i secoli della modernità, dal Seicento al Novecento. Se solo pensiamo, per un momento, al tempo che ci separa dal crollo del Muro di Berlino, ci rendiamo conto che la trentina d’anni che sono trascorsi da quel momento sembrano più di un secolo, un’eternità.
Il tempo, nella società globale e complessa di oggi, scorre molto più velocemente che in passato, mentre con lo scorrere veloce del tempo, cambia assai velocemente, e di continuo, anche il mondo.
E proprio questo continuo, repentino, quasi istantaneo, cambiamento rende assai difficile immaginare il nostro futuro, fra profezie che si possono avverare e utopie in grado di spingerci oltre i nostri limiti.

L’uomo della società globale è ancora più incerto, fragile, esposto alla contingenza, e perciò stesso anche all’errore, dell’uomo protagonista della cosiddetta “crisi della ragione” di fine Ottocento e inizi Novecento. I suoi limiti nell’immaginarsi dentro a un futuro che è sempre più presente e già passato, e quindi più complesso e imprevedibile, non sono soltanto il frutto della crisi della civiltà occidentale ed europea.
Ma anche dell’impossibilità pratica che impedisce all’uomo di oggi di concepirsi come protagonista assoluto del proprio destino. Ciò che all’epoca della “crisi della ragione” poteva attribuirsi alla fine della società borghese e dei suoi valori, mentre oggi si deve attribuire alla sempre più evidente e consapevole incapacità umana di esercitare un controllo decisivo sul mondo esterno.
Come ben sappiamo, la tensione ideale che attraversava le grandi utopie dei secoli scorsi, quelle che hanno generato grandi tragedie ma anche grandi conquiste, viveva di un’irrisolta contraddizione fra desiderare una società migliore e immaginare una realtà sociale irraggiungibile.
Una contraddizione intrinseca al termine u-topia, come neologismo coniato a metà del Cinquecento da Thomas More, dove il prefisso “u” poteva essere parimenti inteso come contrazione dal greco ??, in sostituzione del più corretto ? privativo, oppure come contrazione dal greco e?, a indicare un “bene” superiore.
Utopia,
quindi, come luogo migliore del bene realizzabile dall’uomo oppure come nessun luogo alla reale portata dell’uomo.
E proprio questa irrisolta tensione, fra sogno e realtà, ha reso nei secoli l’Europa protagonista di un’incessante ricerca di libertà, conoscenza e volontà di cambiamento. Oggi, viceversa, la tensione fra miglior bene e nessun luogo non appartiene più al nostro orizzonte di senso.
Non solo perché l’Europa delle rivoluzioni e delle riforme, delle scoperte e delle conquiste, tutte alimentate da quella tensione, non esiste più. Ma anche perché l’uomo di oggi e la società globale che lo accoglie non sono più un terreno favorevole alla costruzione di utopie.
Chi alle utopie rimprovera soprattutto le grandi tragedie che hanno accompagnato la storia del mondo occidentale non può che considerare questo aspetto positivo. Ma se riflettiamo sull’assenza di significato, e quindi di orizzonte, che purtroppo attanaglia il nostro mondo, siamo costretti ad ammettere che un po’ di nostalgia delle utopie non possiamo che averla.



Luciano Fasano
(Professore e Coordinatore Scientifico per

 il Circolo culturale “La Scaletta” 

del Progetto “Democrazia e Futuro”)

 

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